domenica 25 gennaio 2015

Dj, dj... ci fai o ci sei?

Da qualche anno, grazie anche alla presenza sulla scena musicale di personaggi e gruppi come i Daft Punk, David Guetta, Armin Van Buuren e tanti altri, è rinato l’annosa questione sul fatto se la musica prodotta da un dj sia davvero musica o meno.
E’ uno scontro in cui si trovano due fazioni ben distinte e separate: da un lato chi sostiene che la “musica vera” sia quella suonata con uno strumento e chi sostiene che invece un mixer e un computer possono generare anch’essi musica, magari prendendo a prestito qualche riff o qualche spezzone di qualche brano famoso e manipolandolo a dovere.
Da parte mia, credo sia una lotta che non troverà mai una sua soluzione: le concezioni di cosa sia la musica in entrambi gli schieramenti sono così distinte e così radicalmente e diametralmente opposte che non vedo molti punti di contatto per intavolare una discussione o un dibattito sulla cosa.
Questo argomento è oltremodo foraggiato ogni volta da nuove uscite musicali che mettono a dura prova i nervi dei “puristi” e che invece deliziano le orecchie dei “miscelatori”. E così, nel corso del tempo, artisti come gli Air, Cassius, Dimitri from Paris, David Guetta (solo per citare alcuni dj della scena francese), Daft Punk, Deadmau5, Zuma, Avicii, Armand Van Helden hanno trovato fette di pubblico sempre maggiore da sconvolgere e far ballare al ritmo di beat spinti al massimo, di suoni miscelati e di vocalist fenomenali (cito solo Usher, Chris Brown e Sia tra gli ultimi).
Daft Punk | © Frazer Harrison/Getty Images
Daft Punk | © Frazer Harrison/Getty Images
La musica elettronica ormai è arrivata al suo periodo di massima fioritura grazie sia al lavoro di molti suoi “aficionados” che a fenomeni mediatici e sociali che utilizzano questa come colonna sonora (mi viene in mente per esempio la Pirelli che ha usato il singolo dei Breakbot “Fantasy” per organizzare un flashmob in pieno centro). Non mancano anche le grandi kermesse musicali tra cui spicca Wonderland, festival musicale lungo tre giorni in quel di Antwerp in Belgio che ogni anno presenta in cartellone il meglio della musica elettronica in una atmosfera a dir poco magica.
E quindi chi ha ragione? Chi ha torto? Quale è davvero quella tra le due che può fregiarsi del titolo di musica vera e propria?
Dal mio punto di vista, questa è la classica discussione fuffa: la musica elettronica è un genere musicale e come tale può piacere e non piacere. Tutto si riduce ad una questione di gusti, insomma, senza nessuna divisione ostracizzante e senza nessuna guerra ideologica. Ma so che non sono uno con una idea molto condivisa della cosa. Il problema, anzi il punto focale della discussione per me è tutto quanto basato su cosa uno si aspetta da una canzone: c’è chi vuole cantarla, chi vuole suonarla, chi vuole viverla, chi vuole capirla.
A me onestamente basta provare emozioni quando ascolto un brano. Se siano emozioni acustiche o digitali non mi interessa. Che sia “Neon” di John Mayer o “Don’t you worry child” degli Swedish House Mafia, “Writing to reach you” dei Travis o “Raise your weapons” di Deadmau5 i miei sentimenti non sono razzisti. Sono semplicemente quello che sono. E per questo si lasciano trasportare da qualunque canzone che ascoltano e che tocca in qualche modo l’animo. Che piaccia o no.

venerdì 23 gennaio 2015

The Link Syndrome



Capita nella propria vita di ricordare personaggi che hanno fatto la storia e che sono tesoro comune di un’intera generazione ma che sono caduti in una sorta di dimenticatoio, come se la loro presenza fosse una cosa assodata e quasi banale. Nel mondo dei videogiochi questa è una caratteristica anche più accentuata, vista la capacità della videoludica di creare miti e distruggerli un giorno dopo. Ma tra essi ci sono alcuni esempi che hanno fatto la storia del videogioco. E’ stato così per Mario, per Sonic e per Gordon Freeman, ma oggi mi voglio soffermare su un personaggio che per moltissimi è l’emblema del coraggio e dell’eroismo positivo, ovvero Link.

Parlando con alcuni ragazzi mi ha fatto discretamente male sapere che non sanno assolutamente nulla né di Link né della Saga di “The Legend of Zelda”, una delle più longeve e fortunate di tutta la storia del videogaming, cominciata nel lontano 1986 con “The Legend of Zelda” per NES e che ha avuto ben 21 capitoli comprese le due uscite di quest’anno per Wii e Nintendo 3DS senza contare gli spin off in Mario Kart 8 (diventando così il secondo personaggio non appartenente all'universo di Mario ad apparire nella serie Mario Kart), Smash Bros e Soul Calibur.

Neanche tu sai di chi stiamo parlando? Allora te lo spiego.

Link  (リンク Rinku, pronunciato /ˈlɪŋk/ lingk) è l'eroe della serie The Legend of Zelda e nella maggior parte dei giochi della saga (ad eccezione di Zelda II, Twilight Princess e Skyward Sword) comincia la sua avventura come un bambino o un giovane adolescente della razza Hylia (anche se alcuni fumetti affermano che sia nato in una terra a ovest di Hyrule, chiamata Calatia), scelto dalla Dea per proteggere il suo spirito e le sue incarnazioni terrestri (quindi tutte le varie Principesse Zelda del gioco) e la terra di Hyrule dal male rappresentato dalle reincarnazioni di Demise quando esso avrebbe minacciato la pace, in una sorta di ciclo eterno dove i tre protagonisti principali di ogni gioco, ognuno con una delle tre parti della Triforza, agiscono come reincarnazioni dei personaggi.

Link è orfano fin dalla tenera età; sua madre è morta mentre si rifugiava nella Foresta dei Kokiri con in braccio il bambino cercando di fuggire dalla guerra che stava imperversando a Hyrule poco dopo aver affidato suo figlio alle cure del Grande Albero Deku. Egli vive con lo zio o con la nonna, ma lascia la casa per compiere il proprio destino di salvatore di Hyrule o di un'altra terra. Link appare come un giovane elfo con le orecchie a punta ed è il discendente dei Cavalieri di Hyrule e come tale è destinato a salvare la Principessa Zelda. L'arma ricorrente di Link nella saga è la Master Sword, spada incantata e leggendaria che esorcizza il male, forgiata dagli antichi saggi e che alla fine di ogni gioco viene riposta da Link nel suo piedistallo originale in attesa che il Link di un'altra epoca (e di un altro gioco) la brandisca.

Il Link di ogni episodio della saga non è la stessa persona, ma varie incarnazioni differenti dello Spirito dell'Eroe. Dopo essersi presentato come semplice spadaccino, l’identità e il ruolo di ciascuna incarnazione di Link muta in ogni episodio in vari modi e guadagna un appellativo come Eroe del Tempo o Eroe dei Venti: Link è anche in grado di suonare una vasta gamma di strumenti (il cui più celebre è l’Ocarina) e di utilizzare oggetti magici e (anche se in maniera limitata) la magia.
Tutte le incarnazioni di Link posseggono uno spirito indistruttibile ed un coraggio senza pari, grazie anche alla Triforza del Coraggio di cui è visibile il marchio sul dorso della mano sinistra: egli è un ragazzo umile ma coraggioso che mostra raramente segni di codardia ed è sempre pronto ad adoperare la propria forza ed il proprio coraggio per aiutare e salvare tutti coloro che incontra.

Link è considerato uno dei personaggi più famosi prodotti dalla Nintendo e, in generale, uno dei più grandi personaggi della storia dei videogiochi: nel 2005 è stato uno dei primi tre personaggi a guadagnare l'accesso alla Walk of Game insieme a Mario e a Sonic the Hedgehog e il personaggio di Link ha ottenuto vari riconoscimenti in tutto il mondo, grazie alla sua importanza per il mondo videoludico, guadagnandosi la fama di leggenda videoludica e collezionando vari premi che lo hanno acclamato come uno dei più celebrati eroi videoludici di sempre grazie al suo coraggio che sconfigge sempre ogni forza maligna. L’esempio di Link ha aiutato, grazie anche alla serie che lo vede protagonista, la diffusione e la celebrità internazionale del genere dei Giochi di Ruolo e in molti vorrebbero da anni una trasposizione cinematografica della sua saga. Nel 2012 GamesRadar lo definì la personificazione stessa di come un vero eroe dovrebbe essere, nominandolo il più grande, memorabile e influente protagonista mai apparso in un videogioco.

Link, per molti della mia generazione che hanno conosciuto il primo “The Legend of Zelda”, è stato… me. Il giocare con lui, il compiere con lui mille imprese ha cambiato la mia vita. E ciò è quello che volevano anche gli sviluppatori della Nintendo che crearono il personaggio apposta come un "collegamento" (link, per l’appunto) tra il giocatore e il mondo di Zelda, mettendo al centro della serie il giocatore stesso con Link semplicemente suo/a avatar. Per questo motivo il personaggio è muto e sta al giocatore riempirlo con le proprie caratteristiche, esperienze, motivazioni, sentimenti, pensieri ed emozioni. Anche la scelta di iniziare la maggior parte dei giochi con Link dormiente è ben precisa: così come si risveglia Link, così si risveglia l’eroe che è presente nel giocatore, che segue Link che comincia l’avventura come un ragazzo e che finisce l’avventura dopo esser diventato un vero eroe.

Se sono così, se il mio carattere è questo, se non demordo mai, se cerco sempre di risolvere i problemi, una piccola parte in causa ce l’ha anche questo elfetto dagli occhi azzurri e dai capelli biondi, perché non puoi, davvero non puoi, passare ore davanti ad uno schermo a fare l’eroe e a salvare il mondo senza che un po’ del coraggio di Link non ti si attacchi addosso.

Ed ora scusatemi, ma devo scappare: devo andare a salvare la Principessa.

martedì 13 gennaio 2015

Je ne suis Charlie



Io non sono Charlie. 

Io sono Stefano, un ragazzo con una casa in Occidente, un lavoro tranquillo, qualche rata da pagare e che gode delle sue comodità. Non mi trovo in un fronte di guerra occidentale, non combatto ogni giorno per la mia vita, non vedo attorno a me i miei amici che muoiono trafitti dalle pallottole o smembrati da qualche bomba. E posso anche affermare con molta tranquillità che c’è una enorme differenza fra chi come me è vivo e chi è morto ammazzato da una raffica di spari in nome di Allah.

Io non sono Charlie anche perchè non sono un vignettista irriverente come Charb, come Wolinski, come Cabu e come Tignous. Non sono neanche un economista mondiale o un politico di altissimo livello: sono semplicemente un essere umano come tanti altri. E ogni tanto la satira irriverente di Charlie mi ha dato anche fastidio. Ma rivendico il diritto di Charlie ad essere Charlie e per quello devo battermi, scendere in piazza, gridare sulla rete, alzare le matite in piazza, pubblicare hashtags virali e condivedere foto, anche se identificarsi con le vittime è rischioso quando pensi se saresti stato disposto a fare lo stesso in nome di un ideale, che è la libertà e la parità di espressione.  

E hanno ragione tutti quelli che dicono, sottovoce o in pubblica piazza, che in fondo in fondo Charlie Hebdo se l’è cercata, che se succede qualcos’altro è solo colpa loro, che stanno rischiando a continuare su questa linea e non hanno capito niente. Verissimo. Il problema, però, è inverso: noi non siamo tutti Charlie, ma Charlie Hebdo ha rappresentato una parte di tutti noi, quella che ride di tutto e non ha paura di niente.

Il problema è che per il fanatico siamo tutti Charlie, anche se il mondo non è tutto uguale, e vivaddio, aggiungerei. La possibilità di esprimerci ha portato alla stortura dell’eguaglianza assoluta, perché, come dice Amos Oz, il fanatico è così generoso che, dopo aver scoperto dove sta la giustizia, vorrebbe che tu come sia dalla parte giusta, ovvero la sua, ed è disposto a ucciderti, pur di renderti uguale a lui.  

Dobbiamo imparare a distinguere tra identità e libertà, ma dobbiamo anche imparare a dare il giusto significato alla parità di espressione, non solo per il rispetto che meritano i morti, ma anche per una questione morale ben più profonda; proprio perché non siamo Charlie – e molti di noi non vorrebbero nemmeno esserlo - dobbiamo difendere strenuamente il diritto di qualunque Charlie alla sua libertà, che è la stessa nostra anche se siamo diversi da lui.  

Io non ho bisogno di dire “Je suis Charlie” per condannare quello che è successo a Parigi. Non ho bisogno di essere un fumettista irriverente per sapere che non si uccide in nome di Dio, né tanto meno per motivi politici, economici o culturali. Ma ho bisogno di essere me stesso quando difendo il diritto a dissacrare perché chi si offende per una vignetta, per una battuta (e su Spinoza ne abbiamo viste di cotte e di crude) o per un film al cinema o uno sketch in televisione sta solo dimostrando che ha fondato il proprio potere sulla conformità ad una idea e teme di perderlo reagendo in maniera scomposta, vigliacca, violenta e omicida. In questi giorni si sta riaccendendo il dibattito sul diritto alla satira, se debba essere così ampio, così senza limiti, per alcuni addirittura senza controllo. La risposta, almeno per me, è si, per un motivo molto semplice: chi sa ridere di tutto, anche della propria morte o di quella di qualche caro, ha capito la vera essenza della vita, di questa parentesi temporale su questo pianeta.

Sono convinto che l'umorismo sia lo strumento più forte per reagire al male e alla paura, per rendere inerme l’offesa, e il giorno in cui il mondo imparerà a reagire con umorismo ogni volta che qualcuno uccide in nome di qualunque cosa una persona che ha solo un’idea differente dalla sua, comincerò a credere in un mondo migliore.
Nel frattempo , io, nel mio piccolo, citando Guccini e il suo Cyrano, “non perdono e tocco”.